Ospitiamo oggi il “guest post” di Antonio Patti, autore del blog “Lavoro da Filosofo“. Antonio tocca un tema di attualità, dopo la recente indagine di Kelly Services Italia: secondo la quale, anche chi un lavoro in Italia già ce l’ha, pensa alla fuga all’estero. Il problema è sempre lo stesso: il talento in Italia non viene valorizzato. Il motivo ce lo spiega Antonio in questo interessantissimo “post”:
“Alcuni dei problemi più grossi dell’Italia sono la disoccupazione e l’ormai nota fuga dei cervelli. Ciò causa l’impoverimento sia della forza lavoro qualificata, sia dell’intero sistema italiano – che per 25/30 anni investe in giovani che poi “producono” in altri Paesi. Oltre questo gruppo di coraggiosi però c’è anche una minoranza di ragazzi impiegati a tempo indeterminato… di cui non si parla mai.
Io mi chiamo Antonio, sono un siciliano laureato in Filosofia, lavoro nella comunicazione digitale dal 2006 e faccio parte di quella minoranza di trentenni con un lavoro stabile che gli consente di vivere a Milano, dove per vivere s’intende vivere… non comprare casa, metter su famiglia o accumulare dei risparmi. Vivere e basta. In questa mia condizione sento di rappresentare il gruppo di coloro a cui piacerebbe migliorare, sperimentare, crescere e cambiare attività sia per motivi economici, che per l’ingenuo desiderio di realizzarsi nel lavoro. Ma cosa offre l’Italia a gente come noi? Esattamente le stesse cose che offre ai nostri colleghi precari, con l’aggravante morale che noi siamo i “giovani fortunati”, quelli che “almeno un lavoro ce l’hanno”.
E quindi? Cosa significa che un lavoro -almeno- lo abbiamo? Questo modo di pensare è “terrorismo psicologico”, è istigazione alla mediocrità, è appiattimento socio-intellettuale.
Perché considerarsi dei privilegiati e perché avere paura del cambiamento? Perché nel clima di emergenza in cui viviamo, oltre che parlare del primo impiego, non si parla mai della mobilità, della crescita e della carriera? L’opinione pubblica sembra essersi dimenticata che dopo i 30 anni c’è ancora tutta una vita da vivere, che un lavoro insoddisfacente rende la vita insoddisfacente, e che il popolo degli insoddisfatti è uno dei mali che affligge l’Italia.
Non siamo giovani cervelli in fuga, siamo giovani cervelli in gabbia.
Tutti noi abbiamo almeno un amico che è stato costretto ad andar via, e sappiamo bene cosa succede al di là dei confini. All’estero, dopo aver trovato un lavoro, lo approfondiscono, lo cambiano e sono sempre pagati per quello che rendono. Sentire queste storie a volte ci scuote più di quanto succede ai precari, perché abbiamo l’esperienza, abbiamo la voglia, abbiamo la spinta, ma non sempre abbiamo qualcuno che la valorizzi. A volte sembra che non si abbia neanche il diritto ad essere scontenti, e non vivendo in una situazione di contingenza economica… non abbiamo motivi oggettivi per fuggire. Ma siamo sicuri di poter sopportare questa situazione per tutta la vita?
Un proverbio dice: “L’uccello in gabbia non canta per amore, ma canta per rabbia”.
Aziende italiane, dateci un buon motivo per rimanere a lavorare qui che non sia la famiglia o il clima! Se tacete, sappiate che -a differenza dei nostri colleghi emigrati in gioventù- non avremo voglia di tornare. E ci perderete per sempre, anche se le vacanze continueremo a farle qui”.
ANTONIO PATTI
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